Ciuff ciuff in vetta
Estate, andiamo, è tempo di partire.
Stagione di viaggi di piacere per eccellenza, la calda stagione (dicevasi una volta “bella stagione”), è da sempre occasione per esperienze di spostamento vacanziero tradizionali e, sempre più spesso, alternative, anche in termini di mezzi di trasporto. E pure sorprendenti… come può essere l’impiego del treno in montagna. Ma quanto il treno è speciale, anche un evento di questo tipo si trasforma in un’avventura straordinaria, distensiva e ritemprante. Semplicemente indimenticabile.
L’opzione del treno in alta montagna, se parliamo di Alpi, fa subito correre il pensiero alla Svizzera più che all’Italia però, dove il gusto del turismo in carrozza tra monti e valli richiama tutt’al più immagini d’antan. Eppure, mai come oggi, la ferrovia meriterebbe di essere riscoperta e rilanciata: non solo come mezzo di trasporto “ecologico” alternativo alla gomma (inquinante in termini di odori, rumori, gas di scarico, per tacere delle vedute snaturate da serpentoni di veicoli), ma anche come stile di viaggio piacevole e rispettoso, tale da favorire il relax e la contemplazione, nel silenzio di paesaggi meravigliosi. Ci pensa la cremagliera a sostenere tutta la fatica di salire! Con il suo ingegnoso sistema di rotaia centrale munita di denti vince le pendenze più ardue (la ferrovia del Pilatus che parte da Alpnacht, a circa 15 km da Lucerna, è in grado di superare dislivelli del 480 per mille, ovvero 480 m all’insù per ogni chilometro di percorso).
Autentiche reliquie di un Ottocento tutto teso al progresso, alcune linee sono ancora funzionanti, magari con le stesse locomotive a vapore, sempre piene di fascino, la cui sicurezza e comfort sono garantiti da costante manutenzione. Per vivere questa emozione basta sperimentare il rosso “Bernina Express” che collega Tirano (in Valtellina) con St. Moritz o il “Glacier Express” da St. Moritz a Zermatt o i trenini della Jungfrau che raggiungono la stazione più elevata d’Europa (3454 m).
In Italia ciò è possibile solo in misura modestissima (per quantità e qualità dell’offerta); comunque, nemmeno da noi mancano del tutto le linee d’alta quota. Ad esempio, quella di Tenda, realizzata nel 1928, che da Cuneo giunge a Nizza via Breil, località da cui parte anche una diramazione per Ventimiglia. Percorsa da automotrici diesel sia delle Ferrovie dello Stato che della francese Sncf e riaperta solo nel 1979, è in attesa di un opportuno revival. Offre panorami spettacolari delle Alpi Occidentali, superando pendenze “impossibili” con rampe ad elica che si avvitano scenograficamente (anche in galleria). Attraversa orridi pittoreschi che risentono del benefico influsso del Mar Ligure tingendosi di arbusti mediterranei e sprigionando intense fragranze. Questo treno propone, inoltre, un eccellente punto di partenza per escursioni a piedi o in mountain bike.
Altre linee, però, sono finite sotto la mannaia della burocrazia che, ragionando secondo asettici criteri di efficacia ed efficienza economica (in realtà rivelatisi poco lungimiranti in ottica di sviluppo turistico ed ambientale), le ha soppresse definitivamente o ridimensionate draconianamente. E’ rimasto solo un ricordo, così, il delizioso trenino su cui saliva a Cortina d’Ampezzo, nel 1957, Alberto Sordi nel celebre film “Il conte Max” di Giorgio Bianchi. Cancellato nel 1964, il convoglio partiva da Calalzo e, passando per la “Perla delle Dolomiti”, finiva la sua corsa a Dobbiaco, in Val Pusteria. Un’altra occasione sprecata, ahinoi!
Una seria riflessione deve essere avviata, a questo punto, da chi davvero ama la montagna ed ha a cuore il suo futuro, nonché da chi ha un occhio al mero business ed ancora ignora che questo dovrà sempre più legarsi, nell’avvenire, al concetto di crescita sostenibile e, in particolare, ecocompatibile.
E’ innegabile che il miglioramento delle vie di comunicazione abbia scongiurato i rischi di isolamento delle valli alpine e, nello stesso tempo, abbia favorito gli affari, fungendo da volano per l’esplosione turistica. Tuttavia, negli ultimi decenni ciò ha comportato una lievitazione abnorme del trasporto su strada (di merci in transito, non legate quindi all’economia locale), francamente intollerabile. Basti pensare che le regioni alpine sono già innervate di 4000 km di autostrade e superstrade, nonché 600 km di strade a percorrenza internazionale. In effetti, se da un lato la rete ferroviaria non è praticamente mutata negli ultimi quarant’anni, dall’altro la costruzione di infrastrutture stradali e, soprattutto, l’apertura dei grandi trafori, hanno incrementato esponenzialmente il movimento su gomma. E con esso si sono impennati i livelli di emissioni gassose (anche a causa della natura dei tracciati: salite e continui cambiamenti di marcia aggravano la combustione dei motori), di persistenza dell’inquinamento atmosferico nelle vallate (a causa delle loro peculiarità climatiche), di inquinamento acustico (amplificato dalle caratteristiche fisiche del paesaggio), ecc.
E’ chiaro che il trasferimento su rotaia di una parte del traffico è ormai un “must” ineludibile: del resto, questa è la via che hanno imboccato altri Paesi marcatamente alpini come Austria e Svizzera, coscienti della minaccia esercitata sulla loro vocazione turistica e sul benessere collettivo dall’impatto dei trasporti su gomma.
Purtroppo le iniziative unilaterali, per quanto encomiabili, paradigmatiche e stimolanti, non risolvono il problema, rischiando anzi, talvolta, di peggiorare la viabilità nelle regioni confinanti (si veda il boom di transito al Brennero in conseguenza delle limitazioni imposte dalla Confederazione Elvetica). Urge, allora, un coordinamento delle politiche tra i vari Stati interessati, ma soprattutto occorre che maturi a livello politico generale, oltre che civico, la consapevolezza che le ruote avvelenano la montagna in senso proprio e figurato e che, quindi, vanno sottoposte a misure restrittive. Nel contempo, va operata la scelta di investire massicciamente nel trasporto su rotaie.
Per ora, sognando romantici trenini d’alta quota sulle nostre montagne, ci consoliamo con quelli del bel tempo che fu, leggendo gli entusiastici appunti stesi a fine ‘800 dall’ingegnere italiano Edoardo Pini, socio del CAI di Torino, il quale descrisse efficacemente la sensazione di “sentirsi sollevati da chiassose locomotive fumanti su ripidissime coste dalle stridenti dentiere, mentre pare che laghi, pini e colli si sprofondino sotto i nostri piedi… Quasi una preparazione alle salite aerostatiche”.
Chissà che emozione era viaggiare, ad esempio, sulla linea a scartamento ridotto del Moncenisio, la cui realizzazione – dal 1868 al 1871 – consentì di superare il passo prima che venisse inaugurato il traforo del Frejus (il quotidiano inglese “Daily Telegraph” scrisse, in proposito, che il percorso era come “l’avvitarsi di un cavatappi”). Da Susa il treno scavalcava un dislivello di quasi 1600 metri, con carrozze intiepidite nella stagione fredda per mezzo di “scaldapiedi” riempiti di acqua bollente. Tale opera, progettata e ultimata in soli tre anni grazie ad un migliaio di operai “importati” dall’Irlanda, è legata al nome dell’ingegnere britannico John B. Fell e, infatti, è passata alla storia con l’appellativo di “Ferrovia Fell”.
Dotata di una rotaia centrale che impediva il deragliamento ai convogli nei punti più impervi (una sorta di antenato della cremagliera), la linea del Moncenisio resta una vicenda pioneristica delle scalate ferroviarie che segnarono l’ottimistico ultimo scorcio del XIX secolo.




E ora… facciamo attenzione a non perdere l’ultimo treno!





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